Ritorno a Salina
Dopo più di 35 anni, ho fatto ritorno a Salina. L’isola delle Eolie, che conservavo nei ricordi di bambina, mi attendeva cambiata eppure familiare. In questo racconto a episodi, condividerò le mie impressioni su questo viaggio nel tempo. Un dialogo tra passato e presente, tra la persona che ero e quella che sono diventata, tra l’isola dei miei ricordi e la Salina di oggi.
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Prologo
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Il Cappottino blu
Le immagini trasmesse sono l’unica fonte luminosa. Senza, la stanza, i pochi arredi e io, potremmo anche non esistere e quello che sto per raccontare, non avvenire mai.
La televisione accesa è il mio pungi e la sottoscritta, la serpe incantata.
Sdraiata sul letto, obbedisco immobile all’ordine della mamma, di non uscire e stare buona. Intorno a me rumori lontani di vite sconosciute che non raccontano niente di interessante per le mie orecchie di bambina di quasi 8 anni. Resto sul letto e aspetto che la mamma faccia ritorno. I cartoni animati mi fanno compagnia e niente di brutto accade dentro la stanza.
Ora il pungi si è rotto. Lo schermo trasmette solo righe grigie orizzontali. Mi sento strana. La testa e il corpo pesano. Prima ero sola al mondo e la televisione era mia amica, ora che lei si è spenta, il mondo si è riempito di suoni. Resto calma e buona sul letto come mamma mi ha detto di fare mentre usciva. Sento delle voci provenire dal corridoio. Alcune sono veloci altre stridono dentro le mie orecchie. La porta si apre.
«Alzati piccola, mettiamo il cappottino e scendiamo in giardino, la mamma arriva presto vedrai». Questa signora è dolce, la seguo volentieri.
Nel corridoio ci sono diverse persone, vanno tutte nella stessa direzione, Come noi, scendono le scale. Pochi secondi e siamo nel giardino. Fuori è buio, la mamma non c’è.
Non ho freddo, il cappotto blu mi tiene al caldo.
Ferma guardo la casa da cui sono appena uscita. è quadrata. al centro tre gradoni e la porta di ingresso, Un piccolo recinto circonda il giardino in cui mi trovo. Intorno a noi altre case e altre persone in strada.
Perché la tv è diventata grigia? Dov’è la mia mamma?
Mamma è arrivata ora, parla con la Signora gentile, dice che non capisce: Perché siamo scesi in giardino? Si agita e la sento dire: « Come il terremoto? oh mio Dio! Non mi ero accorta di nulla, ero in macchina, stavo arrivando.»
Mamma ora è vicina a me: «La terra ha tremato tutta e la signora ti è venuta a prendere ti ha messo il cappottino e ti ha portata di sotto. Hai avuto paura?»
Il trauma risiede nello spavento che ho letto sulla mamma.
Quella paura così lontana è diventata la mia. L’ho portata dentro di me per 35 anni senza accorgermene.
Poi l’ho urlata tutta, insieme alla rabbia che avevo in corpo. Il panico, si è impossessato di me durante un altro terremoto, quello del 2018.
Come spiegare la momentanea pazzia che si è impossessata di me? Impossibile.
Ho impiegato tutta la vita per capire e non tutto mi è chiaro ma solo ora che cerco di andare oltre, so di poterci riuscire.
Scrivo della giovane ragazzina, dell’adolescente immatura e della mamma impreparata, prendo consapevolezza e vado oltre.
Nel viaggio di una settimana che ho voluto fare da sola, lontana da casa e dalla famiglia ho colto quanto di più straordinario si cela nella mia vita e in quella di tutte le persone incontrate sulla mia strada.… Il 9 novembre del 1983 fu la data del terremoto sicuramente più devastante del secondo dopoguerra per Parma. La scossa arrivò alle 17,28 e, pur essendo del settimo grado della scala Mercalli, lasciò un segno molto pesante sulla città. I feriti furono 60, mentre centinaia, soprattutto nell’Oltretorrente, le case gravemente lesionate e dichiarate inagibili. Anche il Teatro Regio venne colpito in modo tanto grave da costringere a trasferire la stagione lirica al Teatro Ducale.
La Gazzetta di Parma -
9 maggio
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I racconti dell’io
La realtà è un grande ammasso di metallo che si alza in volo vincendo la gravità. Una lama che squarcia il cielo come un velo che separa l’idea dal progetto.
Dopo 2 mesi di ricerche, richieste di informazioni, e letture, mi trovo seduta nelle vicinanze del gate, ad osservare questo piccolo pezzo di mondo. Il tempo è grigio, la foschia copre le prealpi.
Coppie in viaggio, ragazzi in partenza per la gita scolastica e persone in attesa, con chissà quante storie da raccontare. Osservo la pista. Spazi enormi delimitati dai capannoni. Un altro aereo sta per decollare.
Dentro, tra il vociare dell’attesa, sento amplificato il metallo sottile che incontra la ceramica nel più banale dei gesti quotidiani.
Movimenti calcolati, gesti ripetuti che vanno in contrasto con il mio sentire.
Mi abituerò mai? Ne avrò l’occasione? Perderò la magia? Diventerà, un giorno, una necessità banale come prendere un caffè al mattino? Quanti interrogativi tutti in una volta.
Seduta composta con le gambe accavallate il quaderno in una mano e la penna nell’altra, affronto la paura di volare. Mi spinge il desiderio di tornare là dove tutto ha avuto inizio. Mi attende una settimana di piena solitudine, lontana da ritmi scanditi e quotidiane abitudini. Tempo prezioso, che sarà, solo mio.
Uno sguardo al tabellone della partenze.
Lods?!? Ma dove si trova? non ne ho mai sentito parlare.In un’altra vita vorrei avere la libertà di acquistare un biglietto, e partire per una destinazione sconosciuta, solo per il gusto di soddisfare la curiosità.
Sento le spalle tese. L’ansia, che tento costantemente di schiacciare giù nella pancia, risale spinta da una forza sconosciuta. Essere ossessiva, mi aiuta a tenerla a bada e non mi fa andare in palla il cervello. Se perdo il controllo, entro in modalità panico e faccio danno.
Inspiro profondamente, è arrivato il momento. Che disastro se mi fanno imbarcare lo zaino in stiva.
Passo i controlli, percorro il corridoio, scendo le scale e lentamente seguendo il flusso mi ritrovo dentro l’aereo. Trovo il mio posto, mi sistemo.
Mentre attendo che terminano le operazioni di imbarco e di preparazione al decollo, per distrarmi dall’attacco di panico che attende di salire a bordo con me, inizio a riversare sul vicino, un fiume di parole, che raccontano di questo viaggio. Una donna bella ed elegante è seduta vicino al finestrino, io ho scelto il sedile vicino al corridoio. Mi domando cosa penserà di me che ciarlo da quando mi sono seduta. Spero di non passare per una logorroica scassa palle.
Mi impongo il silenzio. Prendo la raccolta de “I racconti dell’io” che ho portato con me e sprofondo nella lettura.Una voce interiore mi ha spinto a partire e io non so perchè ho deciso di tornare a Salina dopo tutto questo tempo?
Il mare colore del ferro
Scendo dall’aliscafo e anche qui mi ritrovo a seguire il flusso dei passeggeri. Ad accoglierci dopo aver attraversato la strada, una piazza, la chiesa gialla dai profili intonacati di bianco e quello che presumo essere l’ufficio del turismo.
Mi avvicino ed entro. Lo sguardo interrogativo che mi rivolge la persona seduta dietro alla scrivania, fa sorgere in me il dubbio di essere caduta in errore. In ogni caso ottengo l’informazione che cercavo.
Ho la netta sensazione che sia la milionesima volta che risponde alla stesso domanda. << Sulla sinistra c’è una panchina. Aspetta li>>.
Di nuovo, come se anche la domanda successiva, l’avesse già sentita chissà quante volte, aggiunge:<< Sul pulmino!!>>
Saluto, seguo le indicazioni, mi siedo sulla panchina e aspetto. da quando sono arrivata in aeroporto questa mattina ho fatto solo questo. un’ora al gate, due sull’aereo, due sul pullman, una al porto in attesa dell’aliscafo e quasi 2 ore per mare.
Provo orrore al pensiero di trascorrere anche le prossime due ore su questa panchina. Sono stanca e non ho voglia di cercare nello zaino il foglio con gli orari del pulmino stampato, in via precauzionale, prima della partenza.
Un senso di vuoto sale all’improvviso dallo stomaco in gola. mi succede sempre quando sono stanca. Mi guardo un po’ in giro così mi distraggo un po’. Il cielo è denso di nubi scure che smorzano la luce del tardo pomeriggio. Il mare è del colore del ferro, scuro e immobile. A terra l’asfalto è bagnato, segno del passaggio recente della pioggia.
Un volto, segnato da rughe profonde mi sorride. Appartiene ad un uomo, con occhi chiari e liquidi. In questo momento è impegnato a riporre oggetti e vestiti nel bagagliaio di un’auto. La carrozzeria appare scolorita in più punti. Mangiata dal sale. Con l’arrivo dell’ultimo aliscafo, e l’allontanarsi dei suoi passeggeri, ha smontato il banco. Immagino, quest’uomo giorno dopo giorno, ripetere sempre le stesse attività. Sullo sfondo tutto è in movimento: Gente di ogni nazionalità passa davanti al suo banco. A volte si ferma altre lo ignora.
Fermo i pensieri prima che la curiosità che nutro verso l’”umana mente” mi spinga a fare domande che invadono un tempo e uno spazio che non mi appartengono.
Per evitare l’imbarazzante silenzio che ha fatto seguito al cenno di saluto che ci siamo appena scambiati, chiudo gli occhi e ascolto il mare. Assenza di suoni. La natura sembra essere in pausa.
Quanta differenza tra questo luogo e quello da cui provengo. Qui il tempo sembra dilatarsi. In città, non riesco ad apprezzare il bello che mi circonda. Quando chiudo gli occhi la natura è sovrastata dal rumore di auto e moto che frenano si fermano e infine ripartono.Riapro gli occhi. La Piazza lentamente si rianima.
Una ragazza, più o meno dell’età di Pietro, uno dei miei figli, porta a spasso il cane e il mio pensiero vola a casa. Chissà chi è uscito in passeggiata con Peach. Sentirà la mia mancanza?
Arriva il pulmino. Una decina di ragazzini con lo zaino di scuola sbucati da non so dove si salutano. Salgono solo alcuni. Il pulmino riparte. Non era il mio.
Una signora lentamente si avvicina e viene a sedersi accanto a me. Tiene tra le braccia una cagnolina molto piccola. Trema tutta. “Si chiama Titti”. Stefania, il suo nome, mi racconta di essere qui con un’amica che è di Milano e soggiorna per qualche giorno in un albergo di Lingua.Attendiamo insieme il nostro passaggio. che tempo cinque minuti arriva. Con fatica sollevo la valigia e salgo. Chiedo al conducente, che accetta volentieri, la gentilezza di lasciarmi davanti a “Casa Ofria”. Ci tiene a sottolineare, però che “Non si dovrebbe!”.
Il Pane Cunzato
Saluto Stefania, ringrazio l’autista e scendo dal pulmino. Sollevo la valigia in cima ad una scalinata bianca. Casa Ofria è un edificio molto grande. Dal pergolato, che possiede una bellissima vista panoramica sulla Salina e il faro di Lingua, si accede attraverso due porte in legno, direttamente alla camera da letto padronale e alla cucina.
Lascio la valigia e lo zaino vicino al letto, curioso un po’ in giro per la casa, prendo la borsa ed esco.
Un’ondata di energia ha spazzato via ogni traccia di stanchezza del viaggio. Sento nascere in me un forte senso di soddisfazione, ci sono riuscita, il viaggio è andato bene e questa settimana tanto attesa e desiderata negli ultimi mesi, può finalmente cominciare.
L’aria del tardo pomeriggio, complice la pioggia passata, è fresca. Percorro una strada stretta tra le case di Lingua e un muro a secco che delimita piccoli appezzamenti di terreno coltivato, fino a ritrovarmi in una piazzetta affacciata sul mare. Non c’è nessuno. Sulla piazza trovo un negozio di generi alimentari, e un paio di ristoranti. La stagione estiva inizierà fra qualche settimana. Questo posto allora sarà ben diverso da come si mostra ora ai miei occhi. Ombrelloni chiusi e tavolini vuoti Mettono un po’ di malinconia. Uno dei locali fortunatamente è aperto così decido di ritornare dopo per trovare qualcosa da mangiare. Ora voglio visitare il faro e “sentire” il mare.
Sulla spiaggia c’è una famiglia con bambini piccoli che sta passeggiando. Il sole sceglie questo momento per affacciarsi prima del tramonto. Finalmente un po’ di luce. tutto intorno a me improvvisamente si colora.
Mentre cammino verso il faro mi accorgo che una persona mi sta seguendo. Un uomo, incontrato prima sul lungomare, lentamente si avvicina. La bolla di cristallo va in frantumi. Dov’è finita tutta la mia sicurezza? La realtà è che, su quest’isola, sono sola e non conosco nessuno. Per la prima volta da quando ho deciso di partire, cresce in me una grande paura che mi fa sentire fragile. Una facile preda.
Prendo il cellulare e inizio a scrivere un messaggio per dire a mio marito tutto il contrario di come mi sento, e cioè che va tutto bene, che sono arrivata e che sono stracontenta. Purtroppo questo non mi fa sentire meglio e quell’uomo, sembra non avere fretta, aspetta paziente, mi supera e prosegue verso il faro. Chiamo Nino, parlo per qualche secondo, ma è impegnato, così termino troppo presto la chiamata e il tipo torna indietro da me.
Tento di non entrare in modalità panico. Deve aver compreso i miei timori perchè l’uomo subito si scusa. Mi sento una stupida. Nella mente mi ero già fatta un film dalla trama orribile. Mentre mi parla, rifletto e mi accorgo che anche io quando mi trovo sola, sarei capace di attaccare bottone anche con i sassi. Anche lui è in visita a Salina, anche se per lavoro. Mentre ascolto con interesse la storia antica del suo paese, della sua famiglia e della sua florida attività, passeggiamo insieme verso il faro e la striscia di pietra lavica che separa il mare dalla zona lacustre. Ritornati in piazzetta, nel salutarci, mi lascia un biglietto da visita, invitandomi, qualora dovessi trovarmi in difficoltà a contattarlo. Mi sento come se mille occhi fossero puntati su di noi. Eppure ci sono solo un paio di persone.
Non mi era mai successo, di ricevere questo tipo di attenzioni, e da questa mattina è già la seconda volta.
La bella donna incontrata in aereo, infatti, una volta a terra mi ha aiutato a trovare il bus per Milazzo e mi ha lasciato il suo contatto per lo stesso motivo. Anche Sonia, questo il suo nome mi ha detto: << Di qualunque cosa avessi bisogno, chiamami pure>>.Entro nel piccolo negozio di generi alimentari e acquisto del formaggio e un sacchetto di paste di mandorla. Un abbinamento di certo originale, ma per la cena ho scelto di provare il famoso “pane cunzato”. Quello di Alfredo mi hanno detto che è famoso in tutto il mondo. Quindi esco dal negozio ed entro nel locale a fianco, lo ordino e mi siedo fuori ad aspettare che sia pronto.
Ripercorro la stretta via, con in mano un contenitore da asporto, con dentro una pagnotta appena sfornata che emana un profumino invitante.
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Estate 1986
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Il Traghetto da Napoli
Con la mia famiglia, eravamo arrivati a Napoli nel tardo pomeriggio dopo un viaggio durato diverse ore.
Mi ricordo che attraversare la città per dirigerci all’imbarco aveva messo a dura prova i nervi della mamma perché continuava a rimproverare mio padre che passava con il rosso o prendeva le strade contromano.
“Qui si fa così” le aveva detto papà con determinazione. Poi aveva aggiunto “se guidassi diversamente, ci verrebbero sicuramente addosso.” I gesti di papà, sicuri, non tradivano nessuna forma nascosta di nervosismo.
Il porto di Napoli, come l’intera città, risultava ai miei occhi di bambina, un luogo caotico. Tutti in coda rumorosamente, in attesa dell’imbarco.
Era la prima volta che salivo su un traghetto. Sul Ponte non volevo poggiarmi. Tutto quel metallo bianco con macchie brune di ruggine sparsa, era freddo ed appiccicoso. Tuttavia volevo vedere il mare dall’alto.
Avremmo trascorso la notte in navigazione per poi arrivare sull’Isola di mattina presto. Di quelle lunghe ore mi ricordo di aver indossato una felpa e un k-way perché il vento sul ponte della nave era insieme freddo e carico di umidità anche in piena estate.
Oltre ai rumori e alle vibrazioni prodotte dai motori e dalle eliche solo silenzio. Il riflesso che le luci producevano sul mare unite alle migliaia di puntini luminosi nel cielo allontavano la paura che diversamente sarebbe potuta insinuarsi in me. Viaggiare in questo modo, era al tempo stesso eccitante e terribile.
Dopo, una notte dal sonno scomodo e disturbato, mi ricordo di essermi recata di nuovo sul ponte dove ad accogliermi trovai una luce intensa mai vista prima. Eravamo nel mezzo di un mare denso e blu scuro. L’isola Vulcano dalla terra arsa e scura lentamente si faceva più vicina.
Quella vacanza era così diversa dalle precedenti. La mia prima volta su un’isola. A Salina, la nostra destinazione, avremmo soggiornato due settimane.
Ad accoglierci la montagna. Velocemente dalla sua cima lo sguardo scendeva verso il molo. Il paese interrompeva la natura arsa dalla calura estiva. Come funghi, le case bianche dai tetti piatti, erano sparse qua e là nel verde diventando un insieme compatto solo verso il molo. Una breve strada centrale divideva il centro della piazza davanti alla quale il personale della nave stava lentamente calando gli ormeggi. Sulla destra una Chiesa del colore del sole e lì vicino, si accedeva attraverso una piccola porta di legno scuro, a quello che sembrava un bar per via dei tavoli con sedie e ombrelloni rossi e bianchi con stampata sopra una famosa marca di gelati .
La gente sulla banchina, indossava vestiti leggeri dai colori chiari e lo sguardo dell’attesa.
Il calore del sole sulla pelle, l’aria asciutta e pulita e una luce così diversa da quella a cui ero abituata; tutto su quell’isola sapeva di estate.
La casa sulla spiaggia
Mi ricordo l’agitazione che avevo provato mentre attendevamo chiusi in macchina, stretti come sardine, nei locali sotterranei del traghetto adibito a rimessa autoveicoli dove l’aria puzzava di gasolio e la poca luce proveniva da una serie di lampade al neon coperte da uno strato di sporco. Tutto li sotto era sporco. La fila di mezzi con il motore acceso lentamente risaliva dalla profondità della nave. Un fascio di luce penetrava dalla rampa indicando la via d’uscita. Dalle profondità del traghetto emergemmo nella frenesia della piazza illuminata dal sole, in un caos di auto, motorini e pedoni che intasavano la strada. Dopo essersi districato, papà alla guida ha costeggiato un breve tratto di mare a destra del molo prima di imboccare una via sterrata che conduceva direttamente sulla spiaggia. Pochi minuti ed eravamo arrivati nella casa che i miei genitori avevano affittato per le due settimane di vacanza a Salina.
Mamma, non era particolarmente contenta. Sdraiarsi a prendere il sole su una spiaggia di sassi non era l’idea di relax che aveva in mente per quella vacanza. In più la casa era particolare. Le camere da letto al primo piano. Cucina e bagno al piano terra. i due piani erano collegati da una scala esterna. Era strano, ogni mattina, uscire fuori per scendere a fare colazione o per andare in bagno. Non dimenticherò mai il piacere che provavo quando mi affacciavo sul pianerottolo e vedevo il mare. Per una ragazzina di città quel posto assomigliava al paradiso.
Il mare incantava con l’acqua che accarezzando le pietre, produceva una melodia dal potere ipnotico. La risacca incalzava la mattina per sopirsi la sera, tranne nei giorni in cui l’energia delle correnti si scaricava impetuosa sull’onda che si frantumava tra i sassi. Ma in quei giorni dei miei ricordi d’estate il mare sonnecchiava placido.
Le giornate scorrevano lente e ripetitive. La mattina in paese e poi in spiaggia. il pranzo la pennica pomeridiana e infine di nuovo mare. Ogni tanto una passeggiata serale sul lungomare fino al molo e ritorno. Nei miei ricordi non abbiamo fatto altro. Nessun giro dell’isola. nessuna visita particolare.
Non eravamo i soli ad abitare una casa sulla spiaggia. Altre famiglie soggiornavano nelle strutture vicine. Tutte casa di pescatori come la nostra, convertite in case di villeggiatura.
C’erano diversi bambini. ma erano tutti più piccoli di me. Una sera senza luna ci siamo ritrovati seduti in cerchio. Chi sul muretto, qualcuno per terra. Non so come sia cominciato, sta di fatto che alzandomi in piedi al centro di questo cerchio umano, ho iniziato a raccontare una storia.
La luna attardandosi dietro la montagna, rendeva la notte particolarmente buia. Le luci delle case erano troppo deboli per raggiungerci. Il mare scuro e silenzioso metteva paura. Solo il cielo era illuminato da migliaia di piccoli puntini luminosi.
La storia che raccontai vedeva protagonisti un gruppo di bambini come noi che si perdeva nel bosco in cima al monte che avevamo alle nostre spalle. Grandi lupi silenziosi, ci scrutavano con i loro occhi gialli pronti a fare di noi un banchetto prelibato.
Sarà stata la mia voce tenebrosa o le mie braccia allargate a simulare le fauci aperte dei lupi pronte a sbranarli che fecero fuggire quei piccoli. Scapparono a casa urlando tutta la loro paura.
Cosa avevo fatto? Mi terrorizzava il pensiero che i miei genitori mi punissero. Scappai a mia volta e per i giorni successivi, fino alla partenza non mi feci più vedere in giro. Non raccontai mai a nessuno quello che era successo. Dimenticai quell’episodio e solo venticinque anni dopo, rielaborai quel ricordo e compresi quello che avevo veramente fatto in quella sera buia d’estate. Avevo suscitato emozioni raccontando una storia e mi era piaciuto un sacco.
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10 Maggio
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Il Risveglio
La mente è vigile. Gli occhi aprendosi potrebbero svelare il giorno nuovo. Tuttavia li tengo chiusi, per ascoltare meglio il cinguettare incessante di centinaia di uccelli. Mi concentro alla ricerca di altre fonti sonore ma non le sento. Nella città dove vivo, l’uomo, le sue auto, i motorini, le ambulanze del vicino pronto soccorso o i lavori nei cantieri edili prossimi a casa si sovrappongono e generano uno spesso muro che impedisce alla natura di farsi ascoltare.
Nella città in cui vivo, raramente la natura riesce a vibrarmi dentro.
Alla fine, mi strappo via dal letto per mettere a bollire l’acqua. Mi preparo una tisana ed esco in veranda. Le temperature nella notte si sono abbassate. La tazza bollente tra le mani, caccia via la nebbia mentale. Potrei trascorrere una vita intera e non riuscire comunque a descrivere ciò che i miei occhi possono ora osservare.
Il cielo spruzzato di grigio fa da fondale ad un panorama incantevole. Oltre la strada, una striscia di terreno scende fino ad incontrare un triangolo lacustre, una riga di massi neri e il faro, bianco e solitario.
Lipari emerge dalle acque occupando gran parte della visuale frontale. E’ così vicina che si distinguono nitidamente i centri abitati. Impossibile, con questa vista, sentire il peso della solitudine.
L’ampia veranda, in cui sto sorseggiando la tisana, è semplice e al tempo stesso magnifica.
Il pavimento in cotto, il muretto bianco, le maioliche dalle tonalità del cielo, il pergolato di legno scuro donano, insieme alle bianche colonne circolari, un certo senso di sicurezza.
Il tavolo di legno massello bianco è rivestito da una pesante tovaglia di filo. Due poltrone e un tavolino da caffè completano l’arredo esterno.
Fin dal primo momento in cui ieri sono entrata nella casa di Loredana, ho provato una sensazione di benessere. Nei mobili, tutti, progettati e costruiti dal suo papà, si legge l’amore per la sua famiglia.
Mi domando chi sarei ora, se fossi nata e cresciuta in questo luogo? Quanto tempo avrei trascorso a scrivere seduta a quel tavolo? A leggere, su queste poltrone?
Finisco la tisana e mi preparo per uscire. Ho un pulmino da prendere.
Salita a Monte Fossa delle Felci
Questa mattina, ho in programma di recarmi a Santa Marina Salina, il luogo a cui ieri sono approdata. E’ mia intenzione fare un giro per il paese, visitare la spiaggia del Barone e rivedere dopo 35 anni il luogo in cui ho soggiornato da bambina.
Scendo le scale e seguo la strada che porta al capolinea del pulmino. Sono circondata da piante di ulivo e limone. Queste ultime sono cariche di frutti. Enormi frutti gialli.
La mente divaga e immagina il mio corpo salire sul muretto a secco, avvicinarsi alla pianta più vicina, tendersi cercando di mantenere l’equilibrio per via dello zaino e raggiungere il frutto più grande. Infine per paura di cadere rinunciare.
Ma è solo una fantasia perchè la gola si chiude mentre sale la vergogna che frena ogni entusiasmo. Il solo pensare di essere beccata a rubare, rende difficile anche respirare. La natura riempie tutti gli spazi e mi distrae da questo peso. L’isola, alla metà di maggio è un tripudio di colori: fiori, frutti, cactus, vigneti.
Un gattone rosso dorme acciambellato sopra un cesto rovesciato; Sente la mia presenza, solleva una palpebra, si assicura che non mi venga in mente di invadere il suo spazio e disturbare il suo riposo.
Procedo dritta. Lo lascio stare.
La strada dopo un centinaio di metri, termina in uno spiazzo circolare.
Osservo questo luogo oltre il quale non si può andare. Ci sono alcune panchine rivolte verso il mare. Sedute su quella più in fondo, riconosco Stefania in compagnia di un’altra donna, l’amica di cui mi parlava ieri. Chiaccherano serene.
Mi avvicino, ci salutiamo e subito Stefania mi presenta Beatrice. La prima impressione che mi fa, è quella di una bella donna dal sorriso aperto e accogliente.
Giusto il tempo di terminare le presentazioni e vengo invitata ad andare con loro in escursione a Monte Fossa delle Felci.
Questa gita era prevista, tra le esperienze da vivere durante questa settimana, ma avevo intenzione di svolgerla con una guida esperta contattata nei giorni scorsi. Fortunatamente non ho ancora preso accordi precisi così accetto volentieri di salire insieme a loro.
A Michele, la guida, chiederò di percorrere altri sentieri.
Il pulmino arriva. Saliamo. Il pulmino riparte.
A Santa Marina, un uomo in particolare cattura la mia attenzione. Ha l’aria di essere un pescatore: Barba bianca, cappello di cotone dal bordo arrotolato calato sulla testa e salopette di jeans con i risvolti alla caviglia. Sale e trova posto a sedere davanti a me.
Il Pulmino riparte.
Dopo avere costeggiato il mare, entriamo dentro la montagna. Una vegetazione fitta e verdeggiante sostituisce il blu intenso del mare.
Mentre percorriamo la strada che porta a Malfa racconto alle mie compagne di escursione il motivo che mi ha portato sull’isola.
Un secondo uomo salito a bordo a Gramignazzi si è seduto dietro a Beatrice, mi accorgo che ascolta con interesse la nostra conversazione e quando si appresta a scendere a San Lorenzo, mi lascia un volantino pubblicitario invitandomi ad andare a conoscere Geronimo. Sul volantino, fa mostra di sé, la copertina di un libro per l’infanzia. Geronimo, il protagonista è una pianta di cappero che ha più di cento anni.
Il pulmino riparte di nuovo e si ferma a Val di chiesa.
Scendiamo al centro dell’Isola. Insieme a noi, una coppia si avvia subito verso il sentiero mentre una donna sta parlando con Stefania, in tedesco.
Mentre attendo ne approfitto per osservare la valle. Da una parte Monte fossa delle Felci dall’altra Monte dei Porri. Al centro, il verde lussureggiante dei vigneti coltivati fin lungo le pareti dei monti. E’ la famosa malvasia delle Lipari.
Ci incamminiamo per effettuare una breve tappa al Santuario della Madonna del Terzito.
La signora tedesca si unisce a noi. Giusto il tempo per una foto ricordo e ci mettiamo in cammino.
Ilse, così si chiama l’ultima ad unirsi alla nostra compagnia, conosce la strada per salire in cima al Monte. Torna a Salina ogni anno. Ama quest’isola e i suoi numerosi sentieri.
Durante la lunga e ripida salita, Beatrice mi sorprende per le sua conoscenze della botanica. Non è allenata ma dando un nome a tutto ciò che incontriamo sul percorso, le riesce di superare la fatica.
Stiamo camminando da due ore quando comprendiamo perché il monte si chiama Fossa delle Felci.
Il sentiero, fino a quel momento immerso nel bosco, si apre sulla cima del monte. Un’ ampia area interamente ricoperta da piante non più alte di mezzo metro e dalle lunghe foglie verdi leggere come piume. Ci ritroviamo così a risalire il sentiero, dentro ad un tappeto vegetale. Le foglie di felce, sotto le mie carezze sono fresche e bagnate.
Il tempo purtroppo è peggiorato. Sopra le nostre teste si sono formate grandi nuvole scure.
Beatrice, sempre più in difficoltà, mi ha riportato indietro di due anni.
Quel giorno, durante un’escursione, la persona affaticata per la salita troppo ripida ero io. Alcuni dei miei compagni di escursione con il loro passo spedito e l’insistenza con cui, andando avanti e poi tornando indietro lungo il sentiero, sollecitavano la mia salita, mi avevano fatto sentire profondamente a disagio. Più che una passeggiata tra amici sembrava fossimo in competizione.
Non fu traumatico solo grazie alla vicinanza costante di mio marito che, senza dire nulla, non mi lasciò mai sola. Mi ricordo che fu un’escursione lenta ma anche bellissima. Arrivai in cima con i miei tempi, fermandomi ogni volta che ne sentivo il bisogno.
Sento il bisogno di fare con Beatrice, la stessa cosa che Nino quel giorno fece con me. Un destino comune o una semplice coincidenza, la medesima fatica di vivere.
Mi racconta che sta cercando di superare le difficoltà che ha incontrato fino ad ora così da poter iniziare a godere della bellezza che la vita ha ancora da offrirle. Sono certa che sia sulla buona strada per realizzare i suoi desideri.
Una volta arrivate in cima al Monte Fossa delle Felci, vago lungo la sua sommità con una punta di delusione, per via delle condizioni atmosferiche proibitive.
Ho visto foto di questo luogo che mostrano un panorama spettacolare: Sfumature di blu tra cielo e mare interrotte dalle altre sorelle che compongono l’arcipelago delle Eolie. Infine la costa e in lontananza l’Etna. Oggi invece, l’isola è immersa dentro cumuli di nubi basse e cariche di pioggia.
Seduta su una grossa radice mangio velocemente il panino che ho portato da casa mentre il fogliame fitto dell’alto fusto mi ripara quasi del tutto dalla pioggia che ha iniziato a scendere fitta.
Titti la pincherina di Tiziana, si avvicina a me e reclama tutta scodinzolante un po’ del mio pranzo. Della compagnia, con i suoi quattro anni, è la più giovane. Stefania la sua padrona ne ha qualcuno in più di me. Mi racconta che pratica Yoga ed escursionismo.
Ilse invece, proviene da Monaco di Baviera, è una pediatra. Minuta, all’apparenza delicata e fragile, mostra un carattere solare ed accogliente. Come Beatrice che è sua coetanea non sembra voler rinunciare a vivere pienamente i 70 anni appena compiuti.
Dopo Titti, sono la più giovane della compagnia. Sento in questa comunione, fatta di diversità che si incontrano, una grande energia vitale.
La lunga discesa
Quando finiamo di mangiare, ci rendiamo conto che il tempo sta ulteriormente peggiorando. Decidiamo di rientrare ma la pioggia non aiuta. La stanchezza accumulata unita al desiderio di essere già a valle rende tutto ancora più faticoso.
Arrivate in fondo al sentiero tappezzato di felci, incontriamo un bivio. A salire non mi ero accorta della sua presenza. Ilse dice che la strada a destra, ci porterà direttamente a Santa Marina. Lei proseguirà invece sulla strada percorsa questa mattina. Ci solletica l’idea di arrivare presto a casa così accettiamo volentieri la sua proposta e la salutiamo.
Percorriamo pochi metri dal bivio, quando Beatrice, Stefania ed io, ci troviamo all’interno di un’atmosfera che sa di fiaba.
Il cielo scuro impedisce alla luce di filtrare attraverso un filare di rami intrecciati. Oltre a Titti che zampetta avanti e indietro e Stefania che incoraggia la sua amica non si ode alcun rumore. Nessun altro escursionista sta scendendo da questo sentiero.
L’entusiasmo iniziale lentamente lascia spazio ad un crescente senso di angoscia perché uscendo dal corridoio verde il cammino si fa impegnativo.
La strada è invasa da pietre e foglie su cui rischiamo continuamente di scivolare. Alti gradoni di roccia si alternano a grosse radici ingombranti. Il sentiero per lunghi tratti è privo di protezioni laterali. Una gola profonda apre la vista ad un lungo costone di roccia rossa stratificata scavato nella montagna di fronte. Siamo sole nel bel mezzo di una foresta vergine. Terrificante è il senso di isolamento e solitudine. Se una di noi si facesse male…
Per Beatrice è un martirio. Stefania la aiuta un passo alla volta. Le sue ginocchia non reggono più la fatica.
Per facilitare il loro passaggio, non sapendo come rendermi utile, cammino avanti, perlustro il sentiero, lo ripulisco.
Questo mi lascia molto tempo per pensare. Ho letto di persone che sono state recuperate, dopo essersi smarrite o addirittura infortunate. Per eccesso di entusiasmo, abbiamo peccato di ottimismo. Siamo state troppo impulsive. Che diavolo ci è venuto in mente di salire fin quassù senza una guida?
Se avessi scelto di seguire il programma originale, ora mi troverei seduta comodamente in veranda a guardare la pioggia scendere fitta con i mano una bella tazza di tisana bollente.
E invece sono in mezzo al nulla fradicia e infreddolita con le scarpe piene di acqua, mentre su di noi cala il buio. Quante volte che per eccesso di prudenza ho rinunciato a vivere un’esperienza per lasciare spazio ad un più pratico senso di responsabilità?
Cerco conforto, guardando a valle, ma è difficile. Quanto mancherà per arrivare a valle? I tetti delle poche case che vedo, sono ancora troppo piccoli, e noi ancora troppo in alto.
Impieghiamo più di 4 ore per giungere a valle. Il tramonto, che non abbiamo visto perché nascosto dietro le nubi, lascia lentamente il posto alla notte. La montagna vista dal basso, ci fa ancora più paura. Animali che non so riconoscere emettono versi cupi. Il sentiero, ora è in piano ma noi quanto ancora dovremo camminare?
La risposta a questo interrogativo fortunatamente non tarda ad arrivare. A margine del sentiero parcheggiato davanti ad un cancello chiuso con un catena arrugginita c’è un fuoristrada. La strada sterrata che sale oltre, è circondata da erba inselvatichita e alta. Solo l’abbaiare dei cani in lontananza ci fa ben sperare perché la zona sembra inabitata.
Non ci resta che proseguire. Siamo tre donne fradice di pioggia e sporche di fango in compagnia di una cagnolina che porto in braccio perché, da più di tre ore, si rifiuta di camminare. La nota positiva in tutta questa storia, è che Titti pesa meno di un gatto.
Il Salvataggio
La delusione che stiamo provando, si trasforma rapidamente in disperazione. Camminiamo ma fatichiamo a rimanere in piedi. Fulmineo arriva quel momento che sa di sconfitta. Non riusciamo più ad avanzare. Ogni passo pesa come se stessimo camminando dentro ad una palude di fango. Il senso di angoscia che ci invade, inghiotte quel poco di felicità provata dall’essere arrivati a valle. Non c’è più spazio per la speranza. ci sentiamo perse. Stiamo per rinunciare quando all’improvviso le nostre spalle sono invase da un fascio di luce, preceduto solamente dal rumore di un motore.
Il fuoristrada ci raggiunge in un attimo.
Non ci penso su un attimo e mi pianto in mezzo al sentiero sterrato. Il conducente accosta e dopo una breve supplica da parte nostra ci offre un passaggio.
Parole su parole, quelle forse trattenute fino ad ora, escono sotto forma di ringraziamento per l’aiuto offerto. Mentre in tre a turno gli parliamo della nostra disavventura, Giovanni, il nostro eroe, ci spiega che aveva sentito i cani abbaiare ma che non ne aveva capito il motivo. Ci racconta che sta andando a prendere la moglie al negozio. Che deve fare presto perché lo sta aspettando. Comunica che ci lascerà alla fermata del pulmino.
Dopo una protesta comune, con un po’ di disappunto, forse mosso a compassione ma anche un po’ divertito per la situazione insolita, Giovanni decide di accompagnarci fino a Lingua. Sette sono i minuti, che impieghiamo per arrivare in auto sulla strada principale. Sette minuti sufficienti per comprendere quanto siamo state fortunate.
Beatrice seduta davanti, racconta a Giovanni di essere di Palermo.
Mentre loro fanno conversazione scoprendo di essere concittadini dalla nascita, la mia sete di storie si risveglia. Giovanni racconta di essere nato e cresciuto a Bagheria. Partito giovane per New York, ha imparato il mestiere lavorando presso un compaesano emigrato anni prima. Per un periodo ha vissuto nella “Grande Mela”. Poi una volta rientrato in Italia, con i risparmi ha acquistato una licenza e ha aperto l sue primo forno. Dopo diverse vicende e qualche decennio è sbarcato a Salina e non è più andato via. Giovanni da molti anni è il fornaio di Santa Marina.
Arrivati a “Casa Ofria” vorrei trattenerlo, abbracciarlo. Invece mi limito a ringraziarlo e dopo un cenno di saluto salgo le scale, apro la porta e in un attimo, sono sotto la doccia con un solo pensiero in testa: Devo assolutamente richiamare Nino.
Mentre scendevamo dalla montagna, svariate volte non ho risposto alle sue telefonate. Mille chilometri ci dividono e se avessi risposto mentre eravamo in mezzo alla montagna, avrebbe intuito subito che ero in difficoltà. Non volevo assolutamente dargli l’idea di essere una incapace anche quando dopo svariati tentativi, mi sono sentita costretta a rispondere, solo per inventare una scusa prima di congedarmi velocemente. Mentire a mio marito, mi ha fatto sentire più sporca del fango che avevo addosso.
Ora che tutto è finito, che sono sdraiata in un comodo letto matrimoniale con addosso vestiti caldi e asciutti. Lui ascolta in silenzio il mio racconto. Potrei rilassarmi ma non ci riesco. Sento ancora i rumori degli animali nascosti nel bosco. Se chiudo gli occhi, nella mente si formano panorami dai colori tetri e nella gola chiusa e nello stomaco contratto si riflette il forte senso di solitudine provato.
Non riesco a prendere sonno. Chiusa la telefonata, accendo la televisione. Avrei bisogno delle calde mani di Nino su di me a donarmi un po’ di conforto.
Non avendo altro, mi preparo una camomilla, mangio qualcosa, stringo forte a me il cuscino e così finalmente mi addormento.
-
10 Maggio
Il Risveglio
La mente è vigile. Gli occhi aprendosi potrebbero svelare il giorno nuovo. Tuttavia li tengo chiusi, per ascoltare meglio il cinguettare incessante di centinaia di uccelli. Mi concentro alla ricerca di altre fonti sonore ma non le sento. Nella città dove vivo, l’uomo, le sue auto, i motorini, le ambulanze del vicino pronto soccorso o i lavori nei cantieri edili prossimi a casa si sovrappongono e generano uno spesso muro che impedisce alla natura di farsi ascoltare.
Nella città in cui vivo, raramente la natura riesce a vibrarmi dentro.
Alla fine, mi strappo via dal letto per mettere a bollire l’acqua. Mi preparo una tisana ed esco in veranda. Le temperature nella notte si sono abbassate. La tazza bollente tra le mani, caccia via la nebbia mentale. Potrei trascorrere una vita intera e non riuscire comunque a descrivere ciò che i miei occhi possono ora osservare.
Il cielo spruzzato di grigio fa da fondale ad un panorama incantevole. Oltre la strada, una striscia di terreno scende fino ad incontrare un triangolo lacustre, una riga di massi neri e il faro, bianco e solitario.
Lipari emerge dalle acque occupando gran parte della visuale frontale. E’ così vicina che si distinguono nitidamente i centri abitati. Impossibile, con questa vista, sentire il peso della solitudine.
L’ampia veranda, in cui sto sorseggiando la tisana, è semplice e al tempo stesso magnifica.
Il pavimento in cotto, il muretto bianco, le maioliche dalle tonalità del cielo, il pergolato di legno scuro donano, insieme alle bianche colonne circolari, un certo senso di sicurezza.
Il tavolo di legno massello bianco è rivestito da una pesante tovaglia di filo. Due poltrone e un tavolino da caffè completano l’arredo esterno.
Fin dal primo momento in cui ieri sono entrata nella casa di Loredana, ho provato una sensazione di benessere. Nei mobili, tutti, progettati e costruiti dal suo papà, si legge l’amore per la sua famiglia.
Mi domando chi sarei ora, se fossi nata e cresciuta in questo luogo? Quanto tempo avrei trascorso a scrivere seduta a quel tavolo? A leggere, su queste poltrone?
Finisco la tisana e mi preparo per uscire. Ho un pulmino da prendere.
Salita a Monte Fossa delle Felci
Questa mattina, ho in programma di recarmi a Santa Marina Salina, il luogo a cui ieri sono approdata. E’ mia intenzione fare un giro per il paese, visitare la spiaggia del Barone e rivedere dopo 35 anni il luogo in cui ho soggiornato da bambina.
Scendo le scale e seguo la strada che porta al capolinea del pulmino. Sono circondata da piante di ulivo e limone. Queste ultime sono cariche di frutti. Enormi frutti gialli.
La mente divaga e immagina il mio corpo salire sul muretto a secco, avvicinarsi alla pianta più vicina, tendersi cercando di mantenere l’equilibrio per via dello zaino e raggiungere il frutto più grande. Infine per paura di cadere rinunciare.
Ma è solo una fantasia perchè la gola si chiude mentre sale la vergogna che frena ogni entusiasmo. Il solo pensare di essere beccata a rubare, rende difficile anche respirare. La natura riempie tutti gli spazi e mi distrae da questo peso. L’isola, alla metà di maggio è un tripudio di colori: fiori, frutti, cactus, vigneti.
Un gattone rosso dorme acciambellato sopra un cesto rovesciato; Sente la mia presenza, solleva una palpebra, si assicura che non mi venga in mente di invadere il suo spazio e disturbare il suo riposo.
Procedo dritta. Lo lascio stare.
La strada dopo un centinaio di metri, termina in uno spiazzo circolare.
Osservo questo luogo oltre il quale non si può andare. Ci sono alcune panchine rivolte verso il mare. Sedute su quella più in fondo, riconosco Stefania in compagnia di un’altra donna, l’amica di cui mi parlava ieri. Chiaccherano serene.
Mi avvicino, ci salutiamo e subito Stefania mi presenta Beatrice. La prima impressione che mi fa, è quella di una bella donna dal sorriso aperto e accogliente.
Giusto il tempo di terminare le presentazioni e vengo invitata ad andare con loro in escursione a Monte Fossa delle Felci.
Questa gita era prevista, tra le esperienze da vivere durante questa settimana, ma avevo intenzione di svolgerla con una guida esperta contattata nei giorni scorsi. Fortunatamente non ho ancora preso accordi precisi così accetto volentieri di salire insieme a loro.
A Michele, la guida, chiederò di percorrere altri sentieri.
Il pulmino arriva. Saliamo. Il pulmino riparte.
A Santa Marina, un uomo in particolare cattura la mia attenzione. Ha l’aria di essere un pescatore: Barba bianca, cappello di cotone dal bordo arrotolato calato sulla testa e salopette di jeans con i risvolti alla caviglia. Sale e trova posto a sedere davanti a me.
Il Pulmino riparte.
Dopo avere costeggiato il mare, entriamo dentro la montagna. Una vegetazione fitta e verdeggiante sostituisce il blu intenso del mare.
Mentre percorriamo la strada che porta a Malfa racconto alle mie compagne di escursione il motivo che mi ha portato sull’isola.
Un secondo uomo salito a bordo a Gramignazzi si è seduto dietro a Beatrice, mi accorgo che ascolta con interesse la nostra conversazione e quando si appresta a scendere a San Lorenzo, mi lascia un volantino pubblicitario invitandomi ad andare a conoscere Geronimo. Sul volantino, fa mostra di sé, la copertina di un libro per l’infanzia. Geronimo, il protagonista è una pianta di cappero che ha più di cento anni.
Il pulmino riparte di nuovo e si ferma a Val di chiesa.
Scendiamo al centro dell’Isola. Insieme a noi, una coppia si avvia subito verso il sentiero mentre una donna sta parlando con Stefania, in tedesco.
Mentre attendo ne approfitto per osservare la valle. Da una parte Monte fossa delle Felci dall’altra Monte dei Porri. Al centro, il verde lussureggiante dei vigneti coltivati fin lungo le pareti dei monti. E’ la famosa malvasia delle Lipari.
Ci incamminiamo per effettuare una breve tappa al Santuario della Madonna del Terzito.
La signora tedesca si unisce a noi. Giusto il tempo per una foto ricordo e ci mettiamo in cammino.
Ilse, così si chiama l’ultima ad unirsi alla nostra compagnia, conosce la strada per salire in cima al Monte. Torna a Salina ogni anno. Ama quest’isola e i suoi numerosi sentieri.
Durante la lunga e ripida salita, Beatrice mi sorprende per le sua conoscenze della botanica. Non è allenata ma dando un nome a tutto ciò che incontriamo sul percorso, le riesce di superare la fatica.
Stiamo camminando da due ore quando comprendiamo perché il monte si chiama Fossa delle Felci.
Il sentiero, fino a quel momento immerso nel bosco, si apre sulla cima del monte. Un’ ampia area interamente ricoperta da piante non più alte di mezzo metro e dalle lunghe foglie verdi leggere come piume. Ci ritroviamo così a risalire il sentiero, dentro ad un tappeto vegetale. Le foglie di felce, sotto le mie carezze sono fresche e bagnate.
Il tempo purtroppo è peggiorato. Sopra le nostre teste si sono formate grandi nuvole scure.
Beatrice, sempre più in difficoltà, mi ha riportato indietro di due anni.
Quel giorno, durante un’escursione, la persona affaticata per la salita troppo ripida ero io. Alcuni dei miei compagni di escursione con il loro passo spedito e l’insistenza con cui, andando avanti e poi tornando indietro lungo il sentiero, sollecitavano la mia salita, mi avevano fatto sentire profondamente a disagio. Più che una passeggiata tra amici sembrava fossimo in competizione.
Non fu traumatico solo grazie alla vicinanza costante di mio marito che, senza dire nulla, non mi lasciò mai sola. Mi ricordo che fu un’escursione lenta ma anche bellissima. Arrivai in cima con i miei tempi, fermandomi ogni volta che ne sentivo il bisogno.
Sento il bisogno di fare con Beatrice, la stessa cosa che Nino quel giorno fece con me. Un destino comune o una semplice coincidenza, la medesima fatica di vivere.
Mi racconta che sta cercando di superare le difficoltà che ha incontrato fino ad ora così da poter iniziare a godere della bellezza che la vita ha ancora da offrirle. Sono certa che sia sulla buona strada per realizzare i suoi desideri.
Una volta arrivate in cima al Monte Fossa delle Felci, vago lungo la sua sommità con una punta di delusione, per via delle condizioni atmosferiche proibitive.
Ho visto foto di questo luogo che mostrano un panorama spettacolare: Sfumature di blu tra cielo e mare interrotte dalle altre sorelle che compongono l’arcipelago delle Eolie. Infine la costa e in lontananza l’Etna. Oggi invece, l’isola è immersa dentro cumuli di nubi basse e cariche di pioggia.
Seduta su una grossa radice mangio velocemente il panino che ho portato da casa mentre il fogliame fitto dell’alto fusto mi ripara quasi del tutto dalla pioggia che ha iniziato a scendere fitta.
Titti la pincherina di Tiziana, si avvicina a me e reclama tutta scodinzolante un po’ del mio pranzo. Della compagnia, con i suoi quattro anni, è la più giovane. Stefania la sua padrona ne ha qualcuno in più di me. Mi racconta che pratica Yoga ed escursionismo.
Ilse invece, proviene da Monaco di Baviera, è una pediatra. Minuta, all’apparenza delicata e fragile, mostra un carattere solare ed accogliente. Come Beatrice che è sua coetanea non sembra voler rinunciare a vivere pienamente i 70 anni appena compiuti.
Dopo Titti, sono la più giovane della compagnia. Sento in questa comunione, fatta di diversità che si incontrano, una grande energia vitale.
La lunga discesa
Quando finiamo di mangiare, ci rendiamo conto che il tempo sta ulteriormente peggiorando. Decidiamo di rientrare ma la pioggia non aiuta. La stanchezza accumulata unita al desiderio di essere già a valle rende tutto ancora più faticoso.
Arrivate in fondo al sentiero tappezzato di felci, incontriamo un bivio. A salire non mi ero accorta della sua presenza. Ilse dice che la strada a destra, ci porterà direttamente a Santa Marina. Lei proseguirà invece sulla strada percorsa questa mattina. Ci solletica l’idea di arrivare presto a casa così accettiamo volentieri la sua proposta e la salutiamo.
Percorriamo pochi metri dal bivio, quando Beatrice, Stefania ed io, ci troviamo all’interno di un’atmosfera che sa di fiaba.
Il cielo scuro impedisce alla luce di filtrare attraverso un filare di rami intrecciati. Oltre a Titti che zampetta avanti e indietro e Stefania che incoraggia la sua amica non si ode alcun rumore. Nessun altro escursionista sta scendendo da questo sentiero.
L’entusiasmo iniziale lentamente lascia spazio ad un crescente senso di angoscia perché uscendo dal corridoio verde il cammino si fa impegnativo.
La strada è invasa da pietre e foglie su cui rischiamo continuamente di scivolare. Alti gradoni di roccia si alternano a grosse radici ingombranti. Il sentiero per lunghi tratti è privo di protezioni laterali. Una gola profonda apre la vista ad un lungo costone di roccia rossa stratificata scavato nella montagna di fronte. Siamo sole nel bel mezzo di una foresta vergine. Terrificante è il senso di isolamento e solitudine. Se una di noi si facesse male…
Per Beatrice è un martirio. Stefania la aiuta un passo alla volta. Le sue ginocchia non reggono più la fatica.
Per facilitare il loro passaggio, non sapendo come rendermi utile, cammino avanti, perlustro il sentiero, lo ripulisco.
Questo mi lascia molto tempo per pensare. Ho letto di persone che sono state recuperate, dopo essersi smarrite o addirittura infortunate. Per eccesso di entusiasmo, abbiamo peccato di ottimismo. Siamo state troppo impulsive. Che diavolo ci è venuto in mente di salire fin quassù senza una guida?
Se avessi scelto di seguire il programma originale, ora mi troverei seduta comodamente in veranda a guardare la pioggia scendere fitta con i mano una bella tazza di tisana bollente.
E invece sono in mezzo al nulla fradicia e infreddolita con le scarpe piene di acqua, mentre su di noi cala il buio. Quante volte che per eccesso di prudenza ho rinunciato a vivere un’esperienza per lasciare spazio ad un più pratico senso di responsabilità?
Cerco conforto, guardando a valle, ma è difficile. Quanto mancherà per arrivare a valle? I tetti delle poche case che vedo, sono ancora troppo piccoli, e noi ancora troppo in alto.
Impieghiamo più di 4 ore per giungere a valle. Il tramonto, che non abbiamo visto perché nascosto dietro le nubi, lascia lentamente il posto alla notte. La montagna vista dal basso, ci fa ancora più paura. Animali che non so riconoscere emettono versi cupi. Il sentiero, ora è in piano ma noi quanto ancora dovremo camminare?
La risposta a questo interrogativo fortunatamente non tarda ad arrivare. A margine del sentiero parcheggiato davanti ad un cancello chiuso con un catena arrugginita c’è un fuoristrada. La strada sterrata che sale oltre, è circondata da erba inselvatichita e alta. Solo l’abbaiare dei cani in lontananza ci fa ben sperare perché la zona sembra inabitata.
Non ci resta che proseguire. Siamo tre donne fradice di pioggia e sporche di fango in compagnia di una cagnolina che porto in braccio perché, da più di tre ore, si rifiuta di camminare. La nota positiva in tutta questa storia, è che Titti pesa meno di un gatto.
Il Salvataggio
La delusione che stiamo provando, si trasforma rapidamente in disperazione. Camminiamo ma fatichiamo a rimanere in piedi. Fulmineo arriva quel momento che sa di sconfitta. Non riusciamo più ad avanzare. Ogni passo pesa come se stessimo camminando dentro ad una palude di fango. Il senso di angoscia che ci invade, inghiotte quel poco di felicità provata dall’essere arrivati a valle. Non c’è più spazio per la speranza. ci sentiamo perse. Stiamo per rinunciare quando all’improvviso le nostre spalle sono invase da un fascio di luce, preceduto solamente dal rumore di un motore.
Il fuoristrada ci raggiunge in un attimo.
Non ci penso su un attimo e mi pianto in mezzo al sentiero sterrato. Il conducente accosta e dopo una breve supplica da parte nostra ci offre un passaggio.
Parole su parole, quelle forse trattenute fino ad ora, escono sotto forma di ringraziamento per l’aiuto offerto. Mentre in tre a turno gli parliamo della nostra disavventura, Giovanni, il nostro eroe, ci spiega che aveva sentito i cani abbaiare ma che non ne aveva capito il motivo. Ci racconta che sta andando a prendere la moglie al negozio. Che deve fare presto perché lo sta aspettando. Comunica che ci lascerà alla fermata del pulmino.
Dopo una protesta comune, con un po’ di disappunto, forse mosso a compassione ma anche un po’ divertito per la situazione insolita, Giovanni decide di accompagnarci fino a Lingua. Sette sono i minuti, che impieghiamo per arrivare in auto sulla strada principale. Sette minuti sufficienti per comprendere quanto siamo state fortunate.
Beatrice seduta davanti, racconta a Giovanni di essere di Palermo.
Mentre loro fanno conversazione scoprendo di essere concittadini dalla nascita, la mia sete di storie si risveglia. Giovanni racconta di essere nato e cresciuto a Bagheria. Partito giovane per New York, ha imparato il mestiere lavorando presso un compaesano emigrato anni prima. Per un periodo ha vissuto nella “Grande Mela”. Poi una volta rientrato in Italia, con i risparmi ha acquistato una licenza e ha aperto l sue primo forno. Dopo diverse vicende e qualche decennio è sbarcato a Salina e non è più andato via. Giovanni da molti anni è il fornaio di Santa Marina.
Arrivati a “Casa Ofria” vorrei trattenerlo, abbracciarlo. Invece mi limito a ringraziarlo e dopo un cenno di saluto salgo le scale, apro la porta e in un attimo, sono sotto la doccia con un solo pensiero in testa: Devo assolutamente richiamare Nino.
Mentre scendevamo dalla montagna, svariate volte non ho risposto alle sue telefonate. Mille chilometri ci dividono e se avessi risposto mentre eravamo in mezzo alla montagna, avrebbe intuito subito che ero in difficoltà. Non volevo assolutamente dargli l’idea di essere una incapace anche quando dopo svariati tentativi, mi sono sentita costretta a rispondere, solo per inventare una scusa prima di congedarmi velocemente. Mentire a mio marito, mi ha fatto sentire più sporca del fango che avevo addosso.
Ora che tutto è finito, che sono sdraiata in un comodo letto matrimoniale con addosso vestiti caldi e asciutti. Lui ascolta in silenzio il mio racconto. Potrei rilassarmi ma non ci riesco. Sento ancora i rumori degli animali nascosti nel bosco. Se chiudo gli occhi, nella mente si formano panorami dai colori tetri e nella gola chiusa e nello stomaco contratto si riflette il forte senso di solitudine provato.
Non riesco a prendere sonno. Chiusa la telefonata, accendo la televisione. Avrei bisogno delle calde mani di Nino su di me a donarmi un po’ di conforto.
Non avendo altro, mi preparo una camomilla, mangio qualcosa, stringo forte a me il cuscino e così finalmente mi addormento.