Ritorno a Salina

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Estate 1986

Il Traghetto da Napoli

Con la mia famiglia, eravamo arrivati a Napoli nel tardo pomeriggio dopo un viaggio durato diverse ore.

Mi ricordo che attraversare la città per dirigerci all’imbarco aveva messo a dura prova i nervi della mamma perché continuava a rimproverare mio padre che passava con il rosso o prendeva le strade contromano.

“Qui si fa così” le aveva detto papà con determinazione. Poi aveva aggiunto “se guidassi diversamente, ci verrebbero sicuramente addosso.” I gesti di papà, sicuri, non tradivano nessuna forma nascosta di nervosismo.

Il porto di Napoli, come l’intera città, risultava ai miei occhi di bambina, un luogo caotico. Tutti in coda rumorosamente, in attesa dell’imbarco.

Era la prima volta che salivo su un traghetto. Sul Ponte non volevo poggiarmi. Tutto quel metallo bianco con macchie brune di ruggine sparsa, era freddo ed appiccicoso. Tuttavia volevo vedere il mare dall’alto.

Avremmo trascorso la notte in navigazione per poi arrivare sull’Isola di mattina presto. Di quelle lunghe ore mi ricordo di aver indossato una felpa e un k-way perché il vento sul ponte della nave era insieme freddo e carico di umidità anche in piena estate.

Oltre ai rumori e alle vibrazioni prodotte dai motori e dalle eliche solo silenzio. Il riflesso che le luci producevano sul mare unite alle migliaia di puntini luminosi nel cielo allontavano la paura che diversamente sarebbe potuta insinuarsi in me. Viaggiare in questo modo, era al tempo stesso eccitante e terribile.

Dopo, una notte dal sonno scomodo e disturbato, mi ricordo di essermi recata di nuovo sul ponte dove ad accogliermi trovai una luce intensa mai vista prima. Eravamo nel mezzo di un mare denso e blu scuro. L’isola Vulcano dalla terra arsa e scura lentamente si faceva più vicina.

Quella vacanza era così diversa dalle precedenti. La mia prima volta su un’isola. A Salina, la nostra destinazione, avremmo soggiornato due settimane.

Ad accoglierci la montagna. Velocemente dalla sua cima lo sguardo scendeva verso il molo. Il paese interrompeva la natura arsa dalla calura estiva. Come funghi, le case bianche dai tetti piatti, erano sparse qua e là nel verde diventando un insieme compatto solo verso il molo. Una breve strada centrale divideva il centro della piazza davanti alla quale il personale della nave stava lentamente calando gli ormeggi. Sulla destra una Chiesa del colore del sole e lì vicino, si accedeva attraverso una piccola porta di legno scuro, a quello che sembrava un bar per via dei tavoli con sedie e ombrelloni rossi e bianchi con stampata sopra una famosa marca di gelati .

La gente sulla banchina, indossava vestiti leggeri dai colori chiari e lo sguardo dell’attesa.

Il calore del sole sulla pelle, l’aria asciutta e pulita e una luce così diversa da quella a cui ero abituata; tutto su quell’isola sapeva di estate.

La casa sulla spiaggia

Mi ricordo l’agitazione che avevo provato mentre attendevamo chiusi in macchina, stretti come sardine, nei locali sotterranei del traghetto adibito a rimessa autoveicoli dove l’aria puzzava di gasolio e la poca luce proveniva da una serie di lampade al neon coperte da uno strato di sporco. Tutto li sotto era sporco. La fila di mezzi con il motore acceso lentamente risaliva dalla profondità della nave. Un fascio di luce penetrava dalla rampa indicando la via d’uscita. Dalle profondità del traghetto emergemmo nella frenesia della piazza illuminata dal sole, in un caos di auto, motorini e pedoni che intasavano la strada. Dopo essersi districato, papà alla guida ha costeggiato un breve tratto di mare a destra del molo prima di imboccare una via sterrata che conduceva direttamente sulla spiaggia. Pochi minuti ed eravamo arrivati nella casa che i miei genitori avevano affittato per le due settimane di vacanza a Salina.

Mamma, non era particolarmente contenta. Sdraiarsi a prendere il sole su una spiaggia di sassi non era l’idea di relax che aveva in mente per quella vacanza. In più la casa era particolare. Le camere da letto al primo piano. Cucina e bagno al piano terra. i due piani erano collegati da una scala esterna. Era strano, ogni mattina, uscire fuori per scendere a fare colazione o per andare in bagno. Non dimenticherò mai il piacere che provavo quando mi affacciavo sul pianerottolo e vedevo il mare. Per una ragazzina di città quel posto assomigliava al paradiso.

Il mare incantava con l’acqua che accarezzando le pietre, produceva una melodia dal potere ipnotico. La risacca incalzava la mattina per sopirsi la sera, tranne nei giorni in cui l’energia delle correnti si scaricava impetuosa sull’onda che si frantumava tra i sassi. Ma in quei giorni dei miei ricordi d’estate il mare sonnecchiava placido.

Le giornate scorrevano lente e ripetitive. La mattina in paese e poi in spiaggia. il pranzo la pennica pomeridiana e infine di nuovo mare. Ogni tanto una passeggiata serale sul lungomare fino al molo e ritorno. Nei miei ricordi non abbiamo fatto altro. Nessun giro dell’isola. nessuna visita particolare.

Non eravamo i soli ad abitare una casa sulla spiaggia. Altre famiglie soggiornavano nelle strutture vicine. Tutte casa di pescatori come la nostra, convertite in case di villeggiatura.

C’erano diversi bambini. ma erano tutti più piccoli di me. Una sera senza luna ci siamo ritrovati seduti in cerchio. Chi sul muretto, qualcuno per terra. Non so come sia cominciato, sta di fatto che alzandomi in piedi al centro di questo cerchio umano, ho iniziato a raccontare una storia.

La luna attardandosi dietro la montagna, rendeva la notte particolarmente buia. Le luci delle case erano troppo deboli per raggiungerci. Il mare scuro e silenzioso metteva paura. Solo il cielo era illuminato da migliaia di piccoli puntini luminosi.

La storia che raccontai vedeva protagonisti un gruppo di bambini come noi che si perdeva nel bosco in cima al monte che avevamo alle nostre spalle. Grandi lupi silenziosi, ci scrutavano con i loro occhi gialli pronti a fare di noi un banchetto prelibato.

Sarà stata la mia voce tenebrosa o le mie braccia allargate a simulare le fauci aperte dei lupi pronte a sbranarli che fecero fuggire quei piccoli. Scapparono a casa urlando tutta la loro paura.

Cosa avevo fatto? Mi terrorizzava il pensiero che i miei genitori mi punissero. Scappai a mia volta e per i giorni successivi, fino alla partenza non mi feci più vedere in giro. Non raccontai mai a nessuno quello che era successo. Dimenticai quell’episodio e solo venticinque anni dopo, rielaborai quel ricordo e compresi quello che avevo veramente fatto in quella sera buia d’estate. Avevo suscitato emozioni raccontando una storia e mi era piaciuto un sacco.

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