Il ricordo di quel giorno è impresso nella mia memoria e difficilmente svanirà con il tempo.
Monza, 5 dicembre del 2017.
Sono passate da poco le quattro del pomeriggio. Ho appena fatto partire una chiamata.
Nel vuoto dell'attesa pesa molto il senso di mortificazione che provo. Oggi per Nino è il primo giorno di lavoro e disturbarlo era l'ultima cosa che avrei desiderato fare.
Dopo qualche secondo di attesa, risponde dubbioso. "Mi sono fatta male." gli comunico di getto. "Sono al campo con Peach e non riesco a camminare".
Chiudo la chiamata. Sono di nuovo sola. Penso ad una soluzione per uscire dalla situazione in cui mi trovo. Sono vicina a casa, nel mio luogo preferito dove lasciare vagare il cane in libertà. Un campo poco frequentato. Una gamba regge il peso, l'altra è sollevata da terra come un fenicottero. Il cane è fermo qualche metro più in là. Mi guarda in attesa di istruzioni. Nessuno intorno a cui chiedere aiuto. Mi sento una stupida.
Mi pesa disturbare ancora ma non vedo altre soluzioni. Se non voglio restare così per più di un ora mi tocca fare un'altra telefonata.
Tempo cinque minuti arrivano in due. Peach,la mia cagnolona, ha capito che qualcosa non va. Non è da lei ringhiare ai miei amici. Solitamente li accoglie con gioia.
Grazie al sostegno ricevuto, sono riuscita ad arrivare con enorme fatica, fino alla loro macchina. Portiamo Peach a casa e la consegniamo a mio papà. Poi in un attimo siamo al pronto soccorso, l'ingresso è proprio di fronte al condominio dove abito. Saluto i miei amici, non possono fermarsi. I bambini stanno uscendo da scuola ed è ora di andarli a prendere.
Sono di nuovo sola.
Prima di uscire avevo stilato un programma nella mia mente: portare fuori il cane, rientrare, preparare la merenda per Pietro e Luca. Niente avrebbe potuto avvertirmi di quello che sarebbe accaduto. Prima ero in piedi, camminavo. Dopo non più.
Prendo coraggio. Slaccio le stringhe e con enorme lentezza ne tiro prima una e poi l'altra per allentare la tensione. Poi allargo le sponde evitando ogni pressione e finalmente riesco ad estrarre il piede. Allo stesso modo, faccio attenzione a rimuovere la calza.
Il piede sembra solo un pò gonfio. Se lo tocco, non fa male, ma non oso muoverlo.
Quando prima ho provato a poggiarlo, mi è sembrato che al posto del piede sinistro, dentro la scarpa ci fosse un budino gelatinoso. Le ossa sembravano essersi smaterializzate.
Fatale è stato un salto. il terreno su cui sono atterrata mi ricordo di averlo percepito morbido, cedevole. Le ossa, semplicemente, le ho sentite scivolare via.
Seduta qui ad aspettare il mio turno, spero, che la radiografia restituisca solo l'esito di un trauma lieve ma ho una brutta sensazione.
Nino mi ha raggiunto al Pronto Soccorso, mi racconta, che dopo avermi salutato, ha chiuso la telefonata, è rientrato in sala riunioni, ha comunicato ai colleghi che doveva andare via e visibilmente preoccupato, ha percorso ad una velocità folle, i quaranta chilometri che lo separavano da me. Mi sento così dispiaciuta. Provo una profonda vergogna.
Dopo 5 giorni, per meglio definire l'entità del danno, con un gesso fin sotto al ginocchio, ho effettuato una Tac.
Esito: "Frattura della Lisfranc e di qualche altro delle ben 36 ossa di cui è composto il piede. Stabilità compromessa e intervento programmato per tentare di ripristinare la funzionalità del piede sinistro".
Allora non sapevo se sarei riuscita a camminare ancora. Ricordo che non amavo particolarmente farlo
La vita a volte è proprio strana. Prima dell’infortunio, ero pigra e sempre stanca. Con due figli piccoli avevo tanta fatica accumulata che non riuscivo a smaltire. Dopo l’esito della Tac, camminare fu l’unica cosa che desideravo fare.
I giorni successivi mi ricordo che piansi molto. Mi sentivo un peso inutile per tutti.
Fino al giorno precedente, ero parte essenziale dell’ingranaggio. Dopo, un’appendice fastidiosa.
Desideravo solo ritrovare l’autonomia perduta.
Alla visita di controllo, per esempio, percorsi i 200 metri fino allo studio del medico, facendo solo affidamento sulla forza che le braccia riuscivano ad imporre alle stampelle. Non mi sarei seduta su una sedia a rotelle, a meno di non essere in fin di vita. Farlo mi avrebbe fatto sentire così fragile, imperfetta e bisognosa di attenzioni.
Tornai a casa, quella sera di metà dicembre con i vestiti appiccicati al corpo. Gocce di sudore, scivolavano copiose lungo la schiena, tracciando sentieri di fuoco e ghiaccio. Nascondevo bene il dolore sordo da cui fuggivo. Avevo il terrore di essere privata della libertà.
L’intervento venne programmato per il 29 dicembre. Nino trascorse la giornata insieme a me. Si distrasse, lavorando al portatile. Ero l’ultima del pomeriggio. Non avevamo altro da fare che aspettare che mi chiamassero. Dopo l’intervento, trascorsi la notte ricoverata fui dimessa la mattina successiva.
La notte di San Silvestro, reduce dall’intervento, restai sdraiata sul divano in uno stato di beatitudine dettato dalla morfina, prescritta per sopportare il dolore che a detta del medico, sarebbe stato intenso. Fluttuavo in uno stato di serenità mai provato prima di allora. Ne ho avuto paura. Non era reale. Dal giorno successivo, lasciai stare la morfina e ripresi il classico antidolorifico. Il dolore fisico fu un’ottima distrazione. La preoccupazione di non poter più camminare era una presenza costante di quei giorni. Per conoscere l’esito dell’intervento sarebbero dovuti passare mesi.
In casa, giravo con la sedia della cameretta perché con le rotelle ero veloce e agile negli spostamenti. Spingendomi con il piede sano, cercavo di fare più lavori possibili.
Quando sentivo il bisogno di riposarmi, mi sdraiavo sul divano. Erano quelle le occasioni in cui la mia pancia diventava una perfetta cuccia per Toad e Daisy, i due gattini di 3 mesi adottati poco prima dell’infortunio.
L’inverno scivolò via e con lui anche le viti che i chirurghi avevano incastrato tra le ossa del piede sinistro per tentare di ripristinarne la funzionalità. Quel cotechino enorme, gonfio e dai toni del viola e del verde mi disgustava. Più lo guardavo e maggiormente non lo riconoscevo. Una massa informe, piena di croste e pelle morta.
Impiegai un anno prima di tornare a camminare di nuovo bene. Sei mesi solo per riuscire a fare il nodo stretto alle stringhe delle sneakers.
A memoria del salto fatto un giorno di quel lontano dicembre resta un vistoso callo osseo, un ricamo di 10 cm e il desiderio di camminare ogni giorno.
Percorrere uno sette o dodici chilometri è per me fonte di gioia. Quando cammino mi sento libera.