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I ponti della mia vita

Ho amato salire sui ponti. Per diversi motivi: offrono una prospettiva più alta, fungono da collegamento tra due punti, portano altrove dove sicuramente trovi qualcosa che ti aspetta.
Quelli più belli sono indubbiamente a Venezia, ma ce ne sono anche di meno famosi, calpestati tante volte o magari una sola volta, che hanno comunque lasciato un ricordo indelebile nel mio cuore. I ponticelli dei Navigli milanesi, per esempio, sono un ricordo di spensieratezza giovanile. Un ponte di pietra antica era il punto di accesso a un villaggio valdostano frequentato nella mia infanzia: un luogo dove, quando entravi, tornavi a tempi antichi in cui i cardini delle porte di legno erano ancora martellati a mano.
Anche attraversare i ponti più moderni, in tempi recenti, mi ha fatto provare sensazioni intense. È successo questa estate in Francia, in un paesino del Var: un ponte di acciaio a trama sottile collegava due parti di un paese diviso da una gola profonda. In fondo, un torrente scorreva a tratti placido.
Ben diverso il rapporto che ho con i pontili. Nella località ligure dove ho soggiornato per diversi periodi della mia infanzia c’è un lungo pontile. Quando ero piccola, ci andavamo con la mia famiglia durante le passeggiate pomeridiane. Mi accorgo ora che arrivare fino al margine e tornare indietro l’ho sempre considerato un’attività inutile. Sì, di fronte c’era il mare infinito fino all’orizzonte; se mi voltavo indietro, potevo osservare il paese e le montagne da una prospettiva diversa. Ma non avrei potuto proseguire oltre, e nessuna nave sarebbe mai salpata da quel pontile pedonale.
Rimanevano ai margini i pescatori, in attesa con le loro lenze. La mia anima non voleva pescare, non voleva complottare con il destino dei piccoli pesci, non voleva sperare che qualche pesce abboccasse all’amo per poi strapparsi e ferirsi in un tentativo di fuga, o peggio ancora per incontrare un destino di morte.
Ecco che le due parole, così simili, portano con loro un bagaglio di esperienze estremamente diverse. Nelle relazioni, per me è lo stesso. Amo il ponte che funge da punto di unione tra due individui che scelgono di riunirsi perché da questa unione ci si può solo arricchire. Quali che siano i termini non importa: il ponte è lo strumento che permette l’incontro.
Certo, come tutte le cose del mondo, il ponte bisogna prendersene cura se si vuole avere la possibilità di utilizzarlo a lungo nel tempo. È questo il motivo per cui, nella mia mente, quando immagino l’azione di fare saltare i ponti—come accadeva durante le guerre—lo vedo come un atto di estrema violenza che definisce proprio le intenzioni di una delle parti: chiudere ogni via di possibilità, che sia di accesso, di dialogo o di fuga.
Al tempo stesso, affinché il ponte sia un passaggio libero, non si possono porre condizioni al passaggio perché, altrimenti, la relazione tra le parti non risulta più equa ma subordinata. Viene meno la reciprocità: lo sbarramento trasforma la connessione reciproca in una via a senso unico, o addirittura in una strada chiusa e sbarrata.
Il ponte relazionale si trasforma così in un pontile, dove la relazione è destinata a stagnarsi, se non addirittura a morire.