Il Risveglio
La mente è vigile. Gli occhi, aprendosi, potrebbero svelare il giorno nuovo. Tuttavia li tengo chiusi, per ascoltare meglio il cinguettare incessante di centinaia di uccelli. Mi concentro alla ricerca di altre fonti sonore ma non le sento. Nella città dove vivo, l’uomo, le sue auto, i motorini, le ambulanze del vicino pronto soccorso o i lavori nei cantieri edili prossimi a casa si sovrappongono e generano uno spesso muro che impedisce alla natura di farsi ascoltare.
Nella città in cui vivo, raramente la natura riesce a vibrarmi dentro.
Alla fine, mi strappo via dal letto per mettere a bollire l’acqua. Mi preparo una tisana ed esco in veranda. Le temperature si sono abbassate nella notte. La tazza bollente tra le mani, caccia via la nebbia mentale. Potrei trascorrere una vita intera e non riuscire comunque a descrivere ciò che i miei occhi possono ora osservare.
Il cielo spruzzato di grigio fa da fondale a un panorama incantevole. Oltre la strada, una striscia di terreno scende fino a incontrare un triangolo lacustre, una riga di massi neri e il faro, bianco e solitario.
Lipari emerge dalle acque occupando gran parte della visuale frontale. È così vicina che si distinguono nitidamente i centri abitati. Impossibile, con questa vista, sentire il peso della solitudine.
L’ampia veranda, in cui sto sorseggiando la tisana, è semplice e al tempo stesso magnifica.
Il pavimento in cotto, il muretto bianco, le maioliche dalle tonalità del cielo, il pergolato di legno scuro donano, insieme alle bianche colonne circolari, un certo senso di sicurezza.
Il tavolo di legno massello bianco è coperto da una pesante tovaglia di lino. Due poltrone e un tavolino da caffè completano l’arredo esterno.
Dal primo momento in cui ieri sono entrata nella casa di Loredana, ho provato una sensazione di benessere. Nei mobili, tutti realizzati dal suo papà, si legge l’amore per la sua famiglia.
Mi domando chi sarei ora, se fossi nata e cresciuta in questo luogo? Quanto tempo avrei trascorso a scrivere seduta a quel tavolo? A leggere, su queste poltrone?
Finisco la tisana e mi preparo per uscire. Ho un pulmino da prendere.
Salita a Monte Fossa delle Felci
Questa mattina, ho in programma di recarmi a Santa Marina Salina, il luogo in cui ieri sono approdata. È mia intenzione fare un giro per il paese, visitare la spiaggia del Barone e rivedere dopo trentacinque anni il luogo in cui ho soggiornato da bambina.
Scendo le scale e seguo la strada che porta al capolinea del pulmino. Sono circondata da piante di ulivo e di limone. Queste ultime sono cariche di frutti. Enormi frutti gialli.
La mente divaga e immagina il mio corpo salire sul muretto a secco, avvicinarsi alla pianta più vicina, tendersi cercando di mantenere l’equilibrio per via dello zaino e raggiungere il frutto più grande. Infine, per paura di cadere, rinunciare.
Ma è solo una fantasia perché la gola si chiude mentre sale la vergogna che frena ogni entusiasmo. Il solo pensare di essere beccata a rubare, rende difficile anche respirare. La natura riempie tutti gli spazi e mi distrae da questo peso. L’isola, alla metà di maggio, è un tripudio di colori: fiori, frutti, cactus, vigneti.
Un gattone rosso dorme acciambellato sopra un cesto rovesciato; sente la mia presenza, solleva una palpebra, si assicura che non mi venga in mente di invadere il suo spazio e disturbare il suo riposo.
Procedo dritta. Lo lascio stare.
La strada, dopo un centinaio di metri, termina in uno spiazzo circolare.
Osservo questo luogo oltre il quale non si può andare. Ci sono alcune panchine rivolte verso il mare. Sedute su quella più in fondo, riconosco Stefania in compagnia di un’altra donna, l’amica di cui mi parlava ieri. Chiacchierano serene.
Mi avvicino, ci salutiamo e subito Stefania mi presenta Beatrice. La prima impressione che mi fa, è quella di una bella donna dal sorriso aperto e accogliente.
Giusto il tempo di terminare le presentazioni e vengo invitata a andare con loro in escursione a Monte Fossa delle Felci.
Questa gita era prevista, tra le esperienze da vivere durante questa settimana, ma avevo intenzione di svolgerla con una guida esperta contattata nei giorni scorsi. Fortunatamente non ho ancora preso accordi precisi, così accetto volentieri di salire insieme a loro.
A Michele, la guida, chiederò di percorrere altri sentieri.
Il pulmino arriva. Saliamo. Il pulmino riparte.
A Santa Marina, un uomo in particolare cattura la mia attenzione. Ha l’aria di essere un pescatore: barba bianca, cappello di cotone dal bordo arrotolato calato sulla testa e salopette di jeans con i risvolti alla caviglia. Sale e trova posto a sedere davanti a me.
Il pulmino riparte.
Dopo aver costeggiato il mare, entriamo dentro la montagna. Una vegetazione fitta e verdeggiante sostituisce il blu intenso del mare.
Mentre percorriamo la strada che porta a Malfa, racconto alle mie compagne di escursione il motivo che mi ha portata sull’isola.
Un secondo uomo, salito a bordo a Gramignazzi, si è seduto dietro a Beatrice; mi accorgo che ascolta con interesse la nostra conversazione e quando si appresta a scendere a San Lorenzo, mi lascia un volantino pubblicitario invitandomi a andare a conoscere Geronimo. Sul volantino, fa mostra di sé, la copertina di un libro per l’infanzia. Geronimo, il protagonista, è una pianta di cappero che ha più di cento anni.
Il pulmino riparte di nuovo e si ferma a Val di Chiesa.
Scendiamo al centro dell’isola. Insieme a noi, una coppia si avvia subito verso il sentiero mentre una donna sta parlando con Stefania, in tedesco.
Mentre attendo, ne approfitto per osservare la valle. Da una parte Monte Fossa delle Felci, dall’altra Monte dei Porri. Al centro, il verde lussureggiante dei vigneti coltivati fin lungo le pareti dei monti. È la famosa Malvasia delle Lipari.
Ci incamminiamo per effettuare una breve tappa al Santuario della Madonna del Terzito.
La signora tedesca si unisce a noi. Giusto il tempo per una foto ricordo e ci mettiamo in cammino.
Ilse, così si chiama l’ultima a unirsi alla nostra compagnia, conosce la strada per salire in cima al Monte. Torna a Salina ogni anno. Ama quest’isola e i suoi numerosi sentieri.
Durante la lunga e ripida salita, Beatrice mi sorprende per le sue conoscenze della botanica. Non è allenata ma, dando un nome a tutto ciò che incontriamo sul percorso, le riesce di superare la fatica.
Stiamo camminando da due ore quando comprendiamo perché il monte si chiama Fossa delle Felci.
Il sentiero, fino a quel momento immerso nel bosco, si apre sulla cima del monte. Un**’ampia area interamente ricoperta da piante non più alte di mezzo metro e dalle lunghe foglie verdi leggere come piume. Ci ritroviamo così a risalire il sentiero,** dentro a un tappeto vegetale. Le foglie di felce, sotto le mie carezze, sono fresche e bagnate.
Il tempo purtroppo è peggiorato. Sopra le nostre teste si sono formate grandi nuvole scure.
Beatrice, sempre più in difficoltà, mi ha riportata indietro di due anni.
Quel giorno, durante un’escursione, la persona affaticata per la salita troppo ripida ero io. Alcuni dei miei compagni di escursione, con il loro passo spedito e l’insistenza con cui, andando avanti e poi tornando indietro lungo il sentiero, sollecitavano la mia salita, mi avevano fatto sentire profondamente a disagio. Più che una passeggiata tra amici sembrava fossimo in competizione.
Non fu traumatico solo grazie alla vicinanza costante di mio marito che, senza dire nulla, non mi lasciò mai sola. Ricordo che fu un’escursione lenta ma anche bellissima. Arrivai in cima con i miei tempi, fermandomi ogni volta che ne sentivo il bisogno.
Sento il bisogno di fare con Beatrice, la stessa cosa che Nino quel giorno fece con me. Un destino comune o una semplice coincidenza: la medesima fatica di vivere.
Mi racconta che sta cercando di superare le difficoltà che ha incontrato fino a ora, così da poter iniziare a godere della bellezza che la vita ha ancora da offrirle. Sono certa che sia sulla buona strada per realizzare i suoi desideri.
Una volta arrivate in cima al Monte Fossa delle Felci, vago lungo la sua sommità con una punta di delusione, per via delle condizioni atmosferiche proibitive.
Ho visto foto di questo luogo che mostrano un panorama spettacolare: sfumature di blu tra cielo e mare interrotte dalle altre sorelle che compongono l’arcipelago delle Eolie. Infine la costa e in lontananza l’Etna. Oggi invece, l’isola è immersa dentro cumuli di nubi basse e cariche di pioggia.
Seduta su una grossa radice, mangio velocemente il panino che ho portato da casa mentre il fogliame fitto dell’alto fusto mi ripara quasi del tutto dalla pioggia che ha iniziato a scendere fitta.
Titti, la pincher di Stefania, si avvicina a me e reclama tutta scodinzolante un po’ del mio pranzo. Della compagnia, con i suoi quattro anni, è la più giovane. Stefania, la sua padrona, ne ha qualcuno in più di me. Mi racconta che pratica yoga ed escursionismo.
Ilse invece, proviene da Monaco di Baviera, è una pediatra. Minuta, all’apparenza delicata e fragile, mostra un carattere solare e accogliente. Come Beatrice, che è sua coetanea, non sembra voler rinunciare a vivere pienamente i settanta anni appena compiuti.
Dopo Titti, sono la più giovane della compagnia. Sento in questa comunione, fatta di diversità che si incontrano, una grande energia vitale.
La lunga discesa
Quando finiamo di mangiare, ci rendiamo conto che il tempo sta ulteriormente peggiorando. Decidiamo di rientrare ma la pioggia non aiuta. La stanchezza accumulata, unita al desiderio di essere già a valle, rende tutto ancora più faticoso.
Arrivate in fondo al sentiero tappezzato di felci, incontriamo un bivio. A salire non mi ero accorta della sua presenza. Ilse dice che la strada a destra, ci porterà direttamente a Santa Marina. Lei proseguirà invece sulla strada percorsa questa mattina. Ci solletica l’idea di arrivare presto a casa, così accettiamo volentieri la sua proposta e la salutiamo.
Percorriamo pochi metri dal bivio, quando Beatrice, Stefania e io, ci troviamo all’interno di un’atmosfera che sa di fiaba.
Il cielo scuro impedisce alla luce di filtrare attraverso un filare di rami intrecciati. Oltre a Titti che zampetta avanti e indietro e a Stefania che incoraggia la sua amica, non si ode alcun rumore. Nessun altro escursionista sta scendendo da questo sentiero.
L’entusiasmo iniziale lentamente lascia spazio a un crescente senso di angoscia perché, uscendo dal corridoio verde, il cammino si fa impegnativo.
La strada è invasa da pietre e foglie su cui rischiamo continuamente di scivolare. Alti gradoni di roccia si alternano a grosse radici ingombranti. Il sentiero per lunghi tratti è privo di protezioni laterali. Una gola profonda apre la vista a un lungo costone di roccia rossa stratificata scavato nella montagna di fronte. Siamo sole nel bel mezzo di una foresta vergine. Terrificante è il senso di isolamento e solitudine. Se una di noi si facesse male…
Per Beatrice è un martirio. Stefania la aiuta un passo alla volta. Le sue ginocchia non reggono più la fatica.
Per facilitare il loro passaggio, non sapendo come rendermi utile, cammino avanti, perlustro il sentiero, lo ripulisco.
Questo mi lascia molto tempo per pensare. Ho letto di persone che sono state recuperate, dopo essersi smarrite o addirittura essersi infortunate. Per eccesso di entusiasmo, abbiamo peccato di ottimismo. Siamo state troppo impulsive. Che diavolo ci è venuto in mente di salire fin quassù senza una guida?
Se avessi scelto di seguire il programma originale, ora mi troverei seduta comodamente in veranda a guardare la pioggia scendere fitta con in mano una bella tazza di tisana bollente.
E invece sono in mezzo al nulla, fradicia e infreddolita con le scarpe piene di acqua, mentre su di noi cala il buio. Quante volte per eccesso di prudenza ho rinunciato a vivere un’esperienza per lasciare spazio a un più pratico senso di responsabilità?
Cerco conforto, guardando a valle, ma è difficile. Quanto mancherà per arrivare a valle? I tetti delle poche case che vedo, sono ancora troppo piccoli, e noi ancora troppo in alto.
Impieghiamo più di quattro ore per giungere a valle. Il tramonto, che non abbiamo visto perché nascosto dietro le nubi, lascia lentamente il posto alla notte. La montagna, vista dal basso, ci fa ancora più paura. Animali che non so riconoscere emettono versi cupi. Il sentiero, ora è in piano, ma noi quanto ancora dovremo camminare?
La risposta a questo interrogativo fortunatamente non tarda ad arrivare. A margine del sentiero, parcheggiato davanti a un cancello chiuso con una catena arrugginita, c’è un fuoristrada. La strada sterrata che sale oltre, è circondata da erba inselvatichita e alta. Solo l’abbaiare dei cani in lontananza ci fa ben sperare perché la zona sembra inabitata.
Non ci resta che proseguire. Siamo tre donne fradice di pioggia e sporche di fango in compagnia di una cagnolina che porto in braccio perché, da più di tre ore, si rifiuta di camminare. La nota positiva in tutta questa storia, è che Titti pesa meno di un gatto.
Il Salvataggio
La delusione che stiamo provando, si trasforma rapidamente in disperazione. Camminiamo ma fatichiamo a rimanere in piedi. Fulmineo arriva quel momento che sa di sconfitta. Non riusciamo più a avanzare. Ogni passo pesa come se stessimo camminando dentro a una palude di fango. Il senso di angoscia che ci invade, inghiotte quel poco di felicità provata dall’essere arrivate a valle. Non c’è più spazio per la speranza; ci sentiamo perse. Stiamo per rinunciare quando all’improvviso le nostre spalle sono invase da un fascio di luce, preceduto solamente dal rumore di un motore.
Il fuoristrada ci raggiunge in un attimo.
Non ci penso su nemmeno un attimo e mi pianto in mezzo al sentiero sterrato. Il conducente accosta e dopo una breve supplica da parte nostra ci offre un passaggio.
Parole su parole, quelle forse trattenute fino a ora, escono sotto forma di ringraziamento per l’aiuto offerto. Mentre in tre a turno gli parliamo della nostra disavventura, Giovanni, il nostro eroe, ci spiega che aveva sentito i cani abbaiare ma che non ne aveva capito il motivo. Ci racconta che sta andando a prendere la moglie al negozio. Che deve fare presto perché lo sta aspettando. Dice che ci lascerà alla fermata del pulmino.
Dopo una protesta comune, con un po’ di disappunto, forse mosso a compassione ma anche un po’ divertito per la situazione insolita, Giovanni decide di accompagnarci fino a Lingua. Sette sono i minuti, che impieghiamo per arrivare in auto sulla strada principale. Sette minuti sufficienti per comprendere quanto siamo state fortunate.
Beatrice, seduta davanti, racconta a Giovanni di essere di Palermo.
Mentre loro fanno conversazione scoprendo di essere concittadini dalla nascita, la mia sete di storie si risveglia. Giovanni racconta di essere nato e cresciuto a Bagheria. Partito giovane per New York, ha imparato il mestiere lavorando presso un compaesano emigrato anni prima. Per un periodo ha vissuto nella “Grande Mela”. Poi, una volta rientrato in Italia, con i risparmi ha acquistato una licenza e ha aperto il suo primo forno. Dopo diverse vicende e qualche decennio, è sbarcato a Salina e non è più andato via. Giovanni da molti anni è il fornaio di Santa Marina.
Arrivate a “Casa Ofria” vorrei trattenerlo, abbracciarlo. Invece mi limito a ringraziarlo e dopo un cenno di saluto salgo le scale, apro la porta e in un attimo, sono sotto la doccia con un solo pensiero in testa: devo assolutamente richiamare Nino.
Mentre scendevamo dalla montagna, svariate volte non ho risposto alle sue telefonate. Mille chilometri ci dividono e se avessi risposto mentre eravamo in mezzo alla montagna, avrebbe intuito subito che ero in difficoltà. Non volevo assolutamente dargli l’idea di essere un’incapace. Anche quando, dopo svariati tentativi, mi sono sentita costretta a rispondere, l’ho fatto solo per inventare una scusa prima di congedarmi velocemente. Mentire a mio marito, mi ha fatto sentire più sporca del fango che avevo addosso.
Ora che tutto è finito, che sono sdraiata in un comodo letto matrimoniale con addosso vestiti caldi e asciutti, lui ascolta in silenzio il mio racconto. Potrei rilassarmi ma non ci riesco. Sento ancora i rumori degli animali nascosti nel bosco. Se chiudo gli occhi, nella mente si formano panorami dai colori tetri e nella gola chiusa e nello stomaco contratto si riflette il forte senso di solitudine provato.
Non riesco a prendere sonno. Chiusa la telefonata, accendo la televisione. Avrei bisogno delle calde mani di Nino su di me a donarmi un po’ di conforto.
Non avendo altro, mi preparo una camomilla, mangio qualcosa, stringo forte a me il cuscino e così finalmente mi addormento.