Sei!
Poco femminile.
Malata (leggi: pazza).
Ingenua, stupida.
Sguaiata, volgare.
Una brutta persona (me lo hanno detto 22 volte in un anno. Le ho contate).
Ingrassata.
Sciatta. Disordinata.
Strana. Brutta.
Solo un po’ carina (mentre mio marito è proprio bello – così mi ha detto una coetanea).
Hai!
Le tette troppo grandi (senza sapere che una volta lo erano molto di più).
Brutte ginocchia.
Mani orribili.
Un carattere di merda.
Dovresti!
Pettinarti.
Calmarti.
Non dovresti!
Agitarti.
Urlare.
Questi sono, a memoria, gli insulti, le offese e le frasi che persone diverse, in momenti diversi, nel corso di questa vita hanno sentito il bisogno di comunicarmi. Non erano prese dalla rabbia e non sono stati detti in momenti di conflitto.
Comprendo bene quanto poco valore risieda in una parola espressa in un momento di furia cieca, e sicuramente non le avrei scolpite così bene nella memoria.
Rifletto invece sulle parole dette in momenti di serenità: magari durante un incontro casuale, oppure tra convenevoli.
Sono perfettamente consapevole che la cosa più semplice da fare sia lasciar perdere, perché quella parola, quella frase racconta molto del mio interlocutore più che di me. In ogni caso, restare completamente indifferente non è mai stata una cosa semplice.
Non è diverso anche in quelle situazioni dove il giudizio è positivo (solo in apparenza): “Stai proprio bene così pettinata”, “Questi pantaloni ti fanno proprio un bel culo”, “Queste scarpe ti slanciano”, “Che bella pelle che hai”, “Come sei soda”. E così via.
Mi sento a disagio, piccola, passata al microscopio, privata della libertà di agire secondo le mie preferenze personali senza incorrere nel rischio di venire giudicata.
Farei veramente a meno del giudizio degli altri: positivo o negativo fa poca differenza. Preferirei che il mio interlocutore si interessasse di me, delle mie neonate passioni per la tragedia greca e la filosofia, o della psicologia applicata all’evoluzione personale, e si rallegrasse per me e per i miei interessi.
Non a caso, le persone con cui più amo trascorrere il tempo sono quelle con cui si può avviare un confronto e che sono propense a un ascolto attivo, anche là dove emergono diversità di vedute.
Perché mi sento così colpita dal giudizio altrui?
Perché mi sento strana e fuori posto quando vengo giudicata?
Perché lascio che certi proclami conquistino tanto spazio nei miei pensieri?
Credo di avere paura della mia stessa autenticità. Quando capita, la mancanza di coraggio nutre la mia insicurezza.
E allora, alla maniera degli antichi, forse non resta soluzione alcuna se non imparare a conoscere me stessa.
Ho provato vergogna. Esistere per me è stato spesso molto faticoso.
Il peso del giudizio altrui ha reso molto difficile esercitare la mia unicità, al punto che mi sono persa nella nebbia delle false identità che ho acquisito per sopravvivere alle parole inferte. Che tristezza e solitudine ogni volta che vesto i panni di qualcuno che non sono, per stare sotto i riflettori del giudizio.
Ma se indosso gli auricolari e accendo la musica, cambia tutto. Su quel palcoscenico che si chiama strada – o che si chiama vita – posso anche ballare.
Il pubblico scompare e mi sento libera di camminare danzando al ritmo che più mi piace. Mi illumino e il sorriso arriva agli occhi. Sono un’equilibrista sul cordolo del marciapiede. Ma non perdo se metto giù il piede, perché il pensiero scorre libero e gli occhi scrutano senza timore tutto ciò che mi circonda. Sono in orbita: sulla Terra, in assenza di peso.
Con la musica, danzo. Con gli audiolibri, viaggio: campagne inglesi, francesi. Montagne sarde, piemontesi. Vallate spagnole, deserti persiani. Strade affollate in città o piccoli borghi di provincia.
Con un paio di auricolari, questo mondo non fa più così paura. Posso essere ciò che voglio. Anche se la gente è la stessa, io così mi sento libera e autorizzata a esistere incondizionatamente.
“Sono quel che sono”, rispondo così a mia mamma un giorno.
In tutta risposta, lei, prendendomi a braccetto, scoppia a ridere di buon cuore, facendomi sentire tutto l’amore che nutre per la sua unica figlia femmina. La bambina ferita trova un po’ di pace.
Un caso fortuito mi ha vista, in un anno, additare come “una brutta persona” per ventidue volte (come scrivevo inizialmente: le ho contate, è diventato un gioco di famiglia). Una benedizione. Non che facessi chissà cosa per ricevere tale epiteto. Ma entrare in contraddittorio con la persona che poi, sprovvista di ulteriori strumenti comunicativi, chiudeva il confronto con tale giudizio – farlo così spesso in un periodo così breve – mi ha aiutato a superare la paura di affermare le mie idee, sostenerle e andare oltre, continuando a danzare anche là dove non mi è possibile filtrare le voci del mondo.